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Dopo il crisantemo
oltre la rapa lunga
nulla

Matsuo Bashō

Se per poesia (dal greco poiēsis: produzione) si intende l'esigenza di esprimere uno stato dell'anima e della carne, suscitabile ed evocabile per tramite della parola, allora scrivo poesie da quando avevo otto anni, come promemoria, per non dimenticare. Foto: by John Stewart, 1977

Con l'analisi maturata nel tempo mi rivedo assorto nella penombra della mia cameretta dove timorosamente, in qualche antro nascosto, riponevo in custodia il cuore del mio sentire. Era un archivio di emozioni, una biblioteca personale dell'intimità radicale alla quale mi dedicavo senza nessuna pretesa di comunicare, se non a me stesso, occultando e custodendo con meticolosa perizia ogni brandello di carta preziosamente broccato da frasi, pensieri sparsi, ghirigori e geroglifici solo a me riconducibili e di sovente intraducibili. Per eccesso di sicurezza presi a scrivere anche al contrario come usava fare Leonardo, con la scrittura a specchio giacché era davvero troppo assurdo l'intento di condividere un tesoro che così intensamente sapeva di me.

Tutt'oggi mi rivedo rapito sui fogli sparsi, come un bimbo che va catturando le farfalle più belle cercando di vederle da vicino, tentando di immergersi in quei colori, di sentirli appunto intimamente propri eppure allo stesso tempo avverta l'impossibilità di alcunché possedimento, di una vana, innaturale cattura.

A distanza di tempo, rileggendo versi, stralci, rigurgiti, taglia e cuci di questo tessuto che è la mia scrittura poetica, sento al contempo la radicale difficoltà a dare voce precisa al mio sentire e la non meno impellente esigenza di parlare di ciò di cui non si può parlare1 , la necessità costretta di prendere quella farfalla tra indice e pollice per vederla da vicino rovinandone irrimediabilmente i colori, delicatissimi. Ma ancor prima vedo la necessità di fare ordine, di scavare il letto più consono, agevole e scorrevole dove il fiume della poesia possa fluire, per non dimenticare ad ogni costo la eco del richiamo, la voce dell'Essere, come se incidere la carta fosse marchiare a fuoco nella carne.

Con gli anni la scrittura si è rarefatta, sia in quantità che in stile diventando un tessuto che dalla calda e spessa densità della lana sembra essersi fatto sottile, liscio e freddo ma altrettanto denso come la seta e tuttavia sempre andava ripetendosi questo assurdo, insalubre incantesimo di voler cogliere me stesso da me stesso facendomelo penzolare innanzi come un asino con la carota!
Così da una poesia di totale esigenza, una poesia dell'urgenza che pur deve dire, tra le sbarre di un invisibile carcere, tacitamente e a voltegiacometti-walking-man-i in un prorompente getto, fiotta una poesia che non dice e che non può dire, consapevole di quella saggia ignoranza che tutto pervade che tutto poetizza, realizzando poesia in ogni dove, in ogni atto. Una poesia tanto più precisamente dell'io quanto più impossibilmente mia. Oggi mi vedo come Giacometti (almeno nell'attitudine!) il quale per sua stessa ammissione, in un documentario sulla sua scultura, affermava di non poter fare a meno di sottrarre materia fino a concretizzarne l'e(a)ssenza in poche linee scarnificate, impalpabili e pur vibranti di presenza.

In perfetta sincronia, al penetrare i significati di quella Babele emozionale della mia infanzia e dell'adolescenza, di questa non-assenza, il mistero che toccavo e che andavo evocando va oggi coincidendo sempre più precisamente con il mio domandarmene. Rimane solo mistero, una domanda incarnata, una carota inghiottita intera, un asino che barcolla ubriaco, una farfalla libera di svolazzare dove i colori sfavillano di arcano dappertutto.


A tale riguardo mi viene da citare un episodio memorabile, cristallino per purezza espressiva e genuinamente lampante. Trattasi per mia definizione, della poesia più corta nella storia della poesia e della poesia prima della poesia. Un giorno Muhammad Alì, uno dei più grandi pugili del mondo, già minato dal parkinson, viene invitato a presiedere ad una lezione in un'aula magna di una prestigiosa facoltà universitaria americana. Alì aveva combattuto a Kinshasa (Zaire,1974) per il titolo mondiale, in una impresa eroica passata alla storia, contro George "l'assassino" Foreman, un colosso imbattibile, nonché campione del mondo, vincendolo incredibilmente per K.O. dopo aver incassato vagonate di pugni per otto riprese. Ad un certo punto, finita la lezione, dalla platea un ragazzo grida: "signor Alì reciti una poesia!". Alì ammutolì e insieme a lui ammutolì l'intera aula magna. Ve lo immaginate Alì, il più spaccone, spavaldo, parlereccio, sboccato e iracondo pugile della storia, ammutolire emozionato davanti alla richiesta di una innocua poesia? Dopo attimi di interminabile silenzio dal profondo delle viscere così si espresse: "Me (Io), We (Noi)". Ne sono rimasto profondamente colpito, tanto da da chiedermi dove fosse la poesia di Alì e dov'è dunque, il cuore della poesia? Alì, mi sono risposto, ha dovuto esprimere l'inesprimibile per esigenza e per dovere verso quegli studenti i quali forse non lo avrebbero compreso fin nel profondo o la sua poesia fu già quell'ammutolimento sbigottito? E dov'è il Cuore del silenzio? C'è poesia nel Cuore della poesia? Forse il Maestro Jōshū avrebbe risposto "Wu!" e forse Te Shan ci avrebbe riservato trenta bastonate! Un K.O. arcano senza via di fuga che relega ogni ragione, ogni concetto o rappresentazione nell'angolo del ring, lasciandoci persi nel nostro centro.

È Qui c'è poesia?

1Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere, L. Wittgenstein – Tractatus logico-philosophicus, 1921

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