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I Beats sono stati i miei fratelli e sorelle maggiori in quei momenti bui in cui cercavo una Visione, ed è proprio in nome di tale Visione che più di un movimento generazionale, il Beat è da considerarsi un sommovimento dello spirito e in quanto tale non precisamente circoscrivibile ad un dato momento storico e culturale.

Piuttosto, in un dato momento storico e culturale, alcune persone hanno riconosciuto come significativo tale intrinseco sommovimento e gli hanno assegnato valore scrivendone e cantandone. L’universo poetico al quale con alcuni amici della mia adolescenza facevo riferimento era, ancor prima di scoprirne le opere, quello dei Beats. Spontaneamente, sincronicamente, empaticamente, il nostro malessere esistenziale, la noia, l’insofferenza, la sete d’avventure e d’esperienze estreme, la libertà agognata, i dubbi, la fragilità, l’estasi poetica, la crudezza della morte, la vertigine del vuoto già da sempre presenti, trovarono voce nelle opere di chi, prima e più precisamente di noi, aveva dato nome a ciò che ci infuocava. Se Ginsberg ha portato la lirica nei bassifondi della nostra anima, tra tossici, guru e nevrotici illuminati, dando voce al loro Urlo[1] tanto umano quanto universale, se Burroughs ha demolito le regole della sintassi, attraverso il linguaggio stesso, con l’intento di schiudere la crudezza della visione celata dietro e nelle parole, Kerouac ha instillato nel mio cuore imberbe il seme dello zen e con esso quello dello haiku[2], pronto a schiudersi a suo tempo, quando la pioggia dell’essere ha annaffiato la terra assetata che ero, e che oggi sono.

L’incontro dei beatnik col buddhismo ed in particolar modo col buddhismo zen è forse stata la più diretta conseguenza di questa comune sete, il bicchiere d’acqua più prezioso nel deserto dell’imminente post-moderno e post-nichilismo che da lì a poco avrebbe fatto tabula rasa persino del fuoco furente del ‘68. Prima e meglio di qualsiasi movimento, se mai fossero stati un movimento, i Beats sentirono l’assonanza viscerale e tematica con l’esperienza del vuoto e dell’impermanenza[3] buddhista. Ne sentirono l’odore nelle esperienze lisergiche, nei funghi psicoattivi e nei rituali di peyotl, nell’alcool e nell’eroina, nel be-bop, nel rock e nel jazz, nella sessualità a-morale e dionisica, nel viaggio perenne dentro il non-viaggio e il non-senso della vita e, nagarjunianamente[4], nei limiti della logica discorsiva.

E poi lo haiku. Quei pops americani[5] che ancora oggi a distanza di anni, restano pietre miliari per gli haijin di tutto il mondo, almeno per coloro che non si affannano a districarsi tra le regole della tradizione giapponese, sulla corretta sillabazione, sulla presenza o meno del kigo[6], come se tale esperienza - perché di una esperienza prima di tutto si tratta - potesse distillarsi dalle lettere come acqua dai sassi e non piuttosto il contrario, ossia farsi parola di fuoco, incisa nelle carni da quella slamata incadescente, fulminea e istantanea che è il richiamo dell’Essere, del Suo mistero, della Sua evidenza nascosta[7].

 Vorrei concludere questo breve ed intenso articolo con due brevi  considerazioni riassuntive, una di carattere letterario e l’altra di carattere poetico.

La prima mi fa persuade, ieri come oggi, che tutta l’opera dei maggiori esponenti del Beat sia traversata da un intento latente comune: quello di portare la parola e chi la pronuncia[8] alle sue estreme propaggini, a bruciarsi del tutto, di modo che l’abisso silente e inamovibile dell’assoluto si mostri come Dorata Eternità[9]. Beat è una sola cosa, sintetizzata da Jack Kerouac[10] nelle prime pagine di On the road[11]: bruciare, senza posa e senza limite, cercando di non tenere fuori nulla dalla propria esperienza, se non l’ultima - e perciò divorante - aspettativa di un senso a fronte di un non-senso totale: ed è questo il combustibile che li spinge a poetare, disperatamente, anche a costo di sacrificare il fegato, il cuore, la già instabile “normalità”, la propria stessa vita.

La seconda prova a condurvi davanti e poi dentro il cuore dell’esperienza: volevo raccontarvi sempre di Jack Kerouac, di come quel giorno, tra gli anni ’50 e ’60, guardando fuori da una finestra, vide un haikù: il primo fiocco di neve dell’inverno. <<Un buon haikù” diceva, “è in grado di darti la stessa sensazione che si prova guardando un dipinto di Van Gogh. Esso è lì e tu non puoi fare o dire niente fuorché guardare, e restare sgomento di fronte all’intensità di ciò che stai guardando>>. Buon vecchio Jack, Santo ubriacone, trafitto dal sapore trasversale del Dharma, perché usare l’alcool per spegnere il fuoco? Perché parlare di ciò che solo si lascia contemplare? Ed ora che fare, quando la mano schiaffeggia sé stessa e l’occhio non vede che l’ occhio?[12]

Inutile, inutile
La pioggia forte
Si getta nel mare

 Per tutto il giorno ho indossato
un cappello che non era
sulla mia testa

La seggiola estiva
si culla da sé
nella bufera di neve

 L’altro uomo
solo come me
in questo universo vuoto

  Ho raccontato una barzelletta
sotto le stelle
nessuno ha riso

 La lampadina
improvvisamente s’è spenta
fine della lettura[13]

 

[1] Howl, Urlo in Italiano, Allen Ginsberg, 1956.

[2] Kaiku, forma breve poetica in metrica, tradizionale del Giappone.

[3] Sūnyatā e Anitya, termini sanscriti che designano la vacuità e l’impermanenza dei fenomeni.

[4] Nāgārjuna, filosofo, monaco e praticante indiano, fondatore della scuola Mādhyamika, ed autore del testo essenziale sulla vacuità Mūla-madhyamaka-kārikā, Le stanze del cammino di mezzo, 150 d.c. - 250 d.c. circa.

[5] Definizione di Jack kerouac.

[6] Kigo, il riferimento stagionale tipico della tradizione classica dello haiku giapponese, e che dovrebbe essere presente in ogni haiku.

[7] L’evidenza nascosta, è il titolo di una pubblicazione del Maestro buddhista Franco Bertossa. Asia edizioni, 2004

[8] Corpo e mente, si direbbe nello zen, del quale Jack Kerouac,  Allen Ginsberg, Gary Snyder ed altri beats erano studiosi e praticanti.

[9] La beatitude,  inattesa, breve, intensa di cui K. parla nella sua Scrittura dell’eternità dorata,  1956.

[10] Kerouac detestava l’ostentazione del termine Beat Generation, sebbene l’avesse coniato nel 1948. Ciò che lui e i suoi compagni vivevano era troppo intimo e individuale per essere fenomeno di una cultura massificata. Il termine ha una doppia valenza: primo, inteso come beatitudine (beatitude, in inglese) secondo, come colpo, battito, pulsazione (beat). Il termine indicò generalmente, secondo stampa e critica e a partire dalla fine degli anni ’50 , la “gioventù bruciata” e dissoluta che avrebbe in seguito preso il nome di hipsters.

[11] On The road, in italiano Sulla Strada, Jack Kerouac, 1951.

[12]  Precedentemente pubblicato in Parola nuda 7, Asia edizioni, 2008.

[13] Una selezione di alcuni haikù di Kerouac tratta da Il libro degli haikù, Oscar Mondadori 2007. L’autore chiama questi haiku “pops” americani, semplici poesie di tre versi, liberandosi dalla metrica tradizionale ma coltivandone lo spirito, trasversale ad epoche e culture.

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