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Vorrei qui tentare di dare il mio contributo alla poetica dell’haiku delineando quelli che per me sono i punti fondamentali per un contemporaneo haijin1 occidentale. Quadro: René Magritre, Les idees claires, 1958
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L’haiku - 俳句, forma poetica sviluppatasi in Giappone nel corso il XVII secolo, affonda le sue radici nel contesto socio politico del suo tempo trovando grande sviluppo e diffusione nel periodo Edo (1603-1868), a partire dalla famosa battaglia di Sekigahara (1600) vinta dal clan Tokugawa a sfavore del clan Toyotomi. Fu la stessa battaglia a cui prese parte, perdendo, uno dei massimi samurai del Giappone, Myamoto no Musashi (1584-1645).
E’ un periodo dove la ferrea etica dello shogunato impone uno stile di vita consono alla via del bushi2 e dello zen, la filosofia e pratica spirituale presente sin dal IX secolo ed importata dalla Cina dove prendeva il nome di chan (dhyana, in sanscrito). L’amidismo ossia il buddhismo della Terra Pura e lo shintoismo completano il quadro delle vie spirituali compresenti allo zen il quale col suo specifico messaggio di superamento della sofferenza, impegno attivo, illuminazione, pratica stoica, vacuità3 ed impermanenza4 , condensa alla perfezione le aspirazioni della classe samurai, devota tanto alla guerra quanto alla verità enunciata dal Buddha. Una figura di riguardo è quella di Matsuo Bashō (1644-1694), indiscusso maestro haijin e tutt’oggi considerato uno dei massimi poeti giapponesi. Fu proprio Bashō a dare all’haiku una vera e propria valenza di pratica, inscindibile dallo zen di cui era adepto.
E’ in questo quadro che l’haiku si inserisce, riflettendo nella sua peculiare struttura ed evocatività poetica l’esperienza stessa che il buddhismo indica ed invita a contemplare lungo una Via5 di pratica senza fine e senza meta, eppure con un obiettivo preciso: il risveglio alla verità della vacuità dei fenomeni, Śūnyatā, significato dell’evento intuitivo denominato satori6 , a seguito di una più o meno lunga pratica di meditazione (zen, chan o dhyana appunto).
L’haiku si presenta come una poesia breve e composta su un unico rigo verticale, suddivisa metricamente in versi di 5-7-5 sillabe o più precisamente morae, unità di suono le quali determinano a loro volta la quantità di sillabe all’interno di una parola. Lo haiku tradizionale ha dei caratteri distintivi, primo fra tutti il kigo 季語 , riferimento stagionale, sia insito alla parola stessa (per es. Dicembre, Autunno ecc..) che rievocato da una immagine (“foglie che cadono”per Autunno, “la mietitura”per l’Estate ecc..).
Il kireji 切れ字 (parola che taglia), una cesura tra la fine della prima o della seconda strofa la quale segna al contempo un ribaltamento semantico ed una correlazione col concetto espresso nella terza strofa. Per intenderci:
Luna e fiori
Quarantonove anni
camminati invano
In questo haiku di Issa7 possiamo assaporare una camminata di una dolce notte d’Estate (La Luna è un kigo che tradizionalmente indica l’Autunno e nello zen si riferisce all’illuminazione, mentre Issa è nato in Giugno), dove la fredda luce della luna e la caducità dei fiori sono messi in relazione con l’impermanenza dei fenomeni e lo scorrere del tempo. La traccia del risveglio di Issa risuona qui come eco di un gusto nostalgico, mono no aware 物の哀れ in giapponese, e di una consapevolezza del tempo che scorre nel non-tempo della vacuità. Il kireji quindi, lungi dall’essere un artificio poetico evoca esso stesso il momento della visione intuitiva propria dello zen, così improvvisa, breve ed intensa, seguita da una seconda fase di metabolizzazione vera e propria, lì dove la messa in relazione concettuale ha l’obiettivo, etico e non letterario, di vedere il kenshō8 non separato dal samsara, la ruota di nascita e morte, ed anche per tale motivo che il riferimento stagionale viene preso a riferimento imprescindibile nell'haiku tradizionale.
Risulterà quindi evidente considerare fin da subito la poetica dell’haiku non solo come una eco dell’esperienza di risveglio spirituale quanto come l’esperienza stessa in atto, la sua metabolizzazione ed integrazione, lì dove la stessa struttura ha assunto la forma più idonea per rendere il significato del risveglio. Possiamo quindi tracciare una linea demarcatoria: non è lo studio letterario a determinare la profondità e la qualità di un haiku quanto primariamente la possibilità di aprirsi all’esperienza stessa, esperienza che credo non possa passare sempre ed esclusivamente per lo studio letterario stesso. Tentare di evocare un haiku con un attento, concentrato e prolungato studio della sua stessa struttura e degli stilemi suoi propri può dare risultati eccellenti come un kata9 ripetuto mille volte che ci schiude ad un lampo di improvvisa visione a-egotica. Nell’haiku come nel bushidō tale ricerca è bene espressa dalla filosofia del fūryū10, condensata nei caratteri del sabi, wabi e yūgen alla base del buddhismo zen. Lo haiku, al pari del cha no yu (cerimonia del thè), del kendo (la Via della spada), dell’aikido, dello shodō (la Via della calligrafia)e del kyudo (la Via dell’arco), è da considerarsi una forma di meditazione pratica essa stessa pur presentando un pericolo maggiore rispetto alle altre discipline: il rischio costante di intellettualizzazione che sempre ha attraversato la poetica dell’haiku nei secoli, generando conflitti e rivalità tra scuole, in special modo in Occidente. Nella mia esperienza trovo difficile scindere la pratica dell’haiku dalla pratica meditativa e a maggior ragione per l’evidenza che tra le vie di pratica orientali quella dell’haiku è l’unica che non passa per il corpo, caso piuttosto unico che raro soprattutto in Giappone dove i saperi si trasmettono ishin-de-shin, da cuore/mente a cuore/mente, sempre centrati nel tan den, luogo dell’unificazione corpo-mente, situato tre dita sotto l’ombelico. Forse perché la poetica dello haiku fu originariamente concepita, al pari delle altre, come pratica integrante dello stesso zazen11? Non nego in ultimo che si possano avere esperienze di profondità esistenziale lungo la Via del fūryū sebbene con ampi marginidi “inquinamento” nel contesto Occidentale, relativista, tecnocratico e post-nichilista in cui siamo nati e ci siamo formati.
Diverso è il discorso per il kigo, il riferimento stagionale , imprescindibile secondo molte scuole di pensiero haiku mentre non lo è per il senryū , genere di haiku che si caratterizza per il concentrarsi sugli stati interiori e personali della natura umana e talvolta in maniera ironica, più che sul rapporto con la natura. Prima di inoltrarmi nella mie personali osservazioni vorrei proporvi questo densissimo haiku di Yosa Buson (1715-1783), uno dei miei haijin prediletti:
Nella mia stanza pesto
il pettine che fu di mia moglie
Nella mia carne un morso
In questo intimissimo, toccante e gelido componimento, dove Buson “incontra” la moglie ormai morta, sono sintetizzati il sentimento ed il significato della vacuità e della impermanenza, i caratteri del wabi, del sabi e dello yugen e la cruda presenza dell’incarnazione umana, immersa com’è nel duḥkha, il patimento esistenziale. Non v’è presente nessun riferimento stagionale, ne diretto ne indiretto (muki 無季 , non-stagione) e naturalmente ringrazio Buson di avermi donato questa perla. Personalmente amo il kigo e quando un haiku mi si impone con tale riferimento non faccio altro che accoglierlo. Per il resto considero la differenza tra haiku e senryū talvolta labile e spesso una pura formalità letteraria (Issa ne è un esempio lampante), la quale che non mi impedirebbe di rimanere “sull’aperto della visione” in una stanza chiusa, in una grotta, in un supermercato. Se l’haiku è esperienza viva, toccante e toccata del vuoto buddhista, della sua eco sentimentale non vedo perché non dovremmo scriverne sempre ed in qualsiasi situazione. C’è forse un luogo dove l’impermanenza non sia? Natura interna ed esterna, nell’esperienza poetica dell’haiku, hanno gli stessi riferimenti di significato sopra indicati i quali dovrebbero sempre avere la precedenza sulla la forma letteraria.
La suddivisione metrica di contro, la trovo un fattore determinante. Originariamente parte iniziale di un tanka (poesia breve), componimento poetico di 31 sillabe dove la prima stanza di 5-7-5 sillabe, denominata kami no ku veniva compiuta da una seconda di 7 più 7 sillabe, lo shimo no ku, lo haiku prende la sua denominazione attuale solo nel periodo Meiji, assegnatagli da Masaoka Shiki (1867-1902) haijin e riformatore culturale del suo tempo il quale vide nel kami no ku valenza poetica a sé stante. Abbiamo già visto come la forma breve ed intensa e il carattere di immediatezza della poetica haiku si conformino perfettamente a quella esperienza di visione esistenziale propria del buddhismo zen e a tal riguardo, la necessità di incanalare tale esperienza in una forma che al tempo stesso costringa e liberi è il fondamento di tutte le vie di pratica orientali, dallo yoga indiano fino al recentissimo aikido. Quello stesso senso di costrizione nel ritrovarsi ingranaggio della ruota samsarica del ciclo delle morti e rinascite è al contempo dannazione e possibilità di risveglio ma solo dove si permanga aperti a quella visione che libera, trascendendo la corazza del nostro piccolo ego. Così la rigidità della metrica estorce e rievoca la visione del vuoto, la attua obbligando lo haijin a non cedere alle trame dello psicologismo e dell’intellettualizzazione, ne a sentimentalismi fini a se stessi. Inoltre non v’è dubbio che la necessità di esprimere quel sentimento di assoluto e che solo può viversi in una immediata quanto improvvisa esperienza trovi nella forma poetica breve la sua massima espressione:
“La forma breve, più di ogni altra, può dunque essere la soglia di una esperienza specificatamente poetica. Quando una poesia adotta una forma breve già si volge, in virtù di questo semplice fatto, verso ciò che, nel nostro rapporto con il mondo, può essere poesia...Proprio perché la realtà è stata per lungo tempo intesa come la semplice creazione di Dio e non come il divino in sé, il pensiero teologico o filosofico ha impegnato lo spirito degli europei (direi degli occidentali tutti) ben più dell’ascolto del suono del vento o dello sguardo di una foglia che cade, e le nostre poesie devono di conseguenza essere abbastanza lunghe affinché un pensiero vi si possa sviluppare...La poesia breve è al sicuro da questa tentazione di indietreggiare di fronte all’impressione immediata. Così, più naturalmente di ogni altra, è in grado di coincidere con un istante vissuto”12
Credo di avere argomentato quelli che sono i tratti distintivi dello haiku non solo tradizionalmente inteso quanto originariamente esperito, quegli stessi tratti che formano il tessuto stesso di una cultura e quindi di una tradizione in seno ad essa: lo haiku si sviluppa come una pratica spirituale a se stante e dai contenuti specifici ben delineati, esso non parla di tutto bensì del vuoto, dell’impermanenza, del richiamo nostalgico all’autentico e al vero, del mistero della presenza del tutto stesso, in ogni dove, fuori dal tempo sebbene in una narrazione. Lo haiku occidentale corre seri rischi di perdere tale rapporto con la sua essenza spirituale, al di fuori di una pratica che passi per il corpo e che sprigioni i suoi significati più profondi nella concretezza della carne. La forma che esso assume è assolutamente consona al significato dell’esperienza di cui si fa voce anzi di più: è esso stesso esperienza in atto, pertanto nei limiti e nelle possibilità di una lingua diversa dal giapponese si dovrebbero rispettare prima di tutto la suddivisione metrica classica e il kireji intendendoli entrambi nella loro, a mio avviso, più profonda essenza. Prima di ogni altro aspetto formale e non a caso tecnico e che pare avere preso oggi, tutto il campo di indagine sulll'haiku, nonché nel definirne quali siano quelli più o meno "puri", quel che conta è davvero il rapporto con quella fonte originaria che lo contraddistingue da qualunque altra forma poetica e che ne delimita il campo.
Sebbene non sia corretto considerare haiku i componimenti brevi di Jack Kerouac ci terrei a concludere con una delle più sentite descrizioni sull’haiku che abbia mai letto ed una manciata dei suoi “pops americani”:
“Un buon haiku è in grado di darti la stessa sensazione che si prova guardando un dipinto di Van Gogh. Esso è lì e tu non puoi fare o dire niente fuorché guardare e restare sgomento di fronte all’intensità di ciò che stai guardando”.13
Buon vecchio Jack, Santo ubriacone, trafitto dal sapore trasversale del Dharma, perché usare l’alcool per spegnere il fuoco? Perché parlare di ciò che solo si lascia contemplare? Ed ora che fare, quando la mano schiaffeggia sé stessa e l’occhio non vede che l’occhio?
Inutile, inutile -
la pioggia forte
si getta nel mare
La seggiola estiva
si culla da sé
nella bufera di neve
L’altro uomo
solo come me
in questo universo vuoto
Ho raccontato una barzelletta
sotto le stelle -
nessun ha riso
1 Haijin, 廃人 - dal giapponese,poeta di haiku.
2Bushi, 武士 - dalgiap. guerriero, dal quale deriva la denominazione bushidō, 武士道 – La via del guerriero
3Śūnyatā - dalsanscrito, dottrina fondamentale del buddhismo che designa l’infondatezza di tutti i fenomeni, coscienza stessa inclusa.
4Anitya - dal anscrito, dottrina fondamentale del buddhismo che designa l’impossibilità di stabilirsi in un fenomeno, corporeo o mentale che sia, la insussistenza di ogni fenomeno, la sua co-produzione.
5 Do, 道 - dal giap. o Tao, dal cinese.
6 Satori, 悟り - dal giap.o wù, dal cinese, comprensione profonda.
7 Kobayashi Issa, 1763-1828, uno dei più significativi haijin giapponesi.
8Kenshō,見性 - dal giap. vedere nell’essenza , un evento realizzativo minore rispetto al satori.
9 Kata, 型- dal giap. forma o modello.
10 Fūryū, 風流 - dal giap. filosofia e prassi derivata dal buddhismo zen e che si esplica nei caratteri del sabi, la semplicità, del wabi l’attenzione alle piccole cose del quotidianoe dello yūgen, il mistero che si cela dietro di esse.
11Zazen, 座禅 - dal giap. meditazione seduta.
12 Yves Bonnefoy - Sull’haiku, O barra O edizoni.
13 Jack Kerouac - Il libro degli haiku, Piccola biblioteca Oscar Mondadori.