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Ad oggi credo vi sia una gran confusione nell’intendere lo studio del didjeridoo, come suole accadere in altri studi del resto.
Mi chiedo infatti perché mai l'esito di noi occidentali, nei confronti di tradizioni altre si risolva in un freddo e de-significante tecnicismo (del tipo: come si fa, come si usa, come si produce e come si ri-produce tale cosa) oppure in uno sterile esotismo new-age.
Il Karaté di Okinawa è stato ridotto a grafico digitalizzato della macchina umana da History Channel (la serie Human weapon) e lo Yoga a pratica antistress per impiegati sovraccarichi di lavoro. Purtroppo tale esito non è rivolto solo nei confronti delle suddette discipline, il cui scarto con l’autentica tradizione risulta lampante agli occhi di chi ha potuto saggiarla in prima persona. Ebbene, non stiamo forse assistendo alla presunta possibilità di controllo, di uso e di manipolazione di tutti gli ambiti dell’esperienza umana? Tecnica e new-age non hanno forse in comune la normalizzazione, quindi uso e consumo, dell’intrinseco ed irrisolvibile mistero che tutti noi siamo? Una volta sentii affermare da un suonatore che non gli interessava nulla di ciò che c’era dietro il didjeridoo: ciò che gli premeva era che gli fosse insegnata una tecnica! Eppure una cosa è imparare una tecnica l'altra è suonare e c’è una grande differenza tra suonare ed eseguire, tra esperienza ed operabilità.
Suonare (il didjeridoo) nella mia esperienza equivale essenzialmente al suonar-si, all’incontrar-si, al rapportar-si a sé stessi e in questo incontro a rendersi disponibili all’altro. La tecnica d’altro canto è necessità di controllo, di manipolazione, di uso. Svuotare questo originario rapporto del suo significato primigenio, ancora prima che mitologico e culturale, affidandosi esclusivamente alla tecnica equivale, in perfetta linea col pensiero vigente, ad usar-si. Se non altro sarebbe da realizzare che l'affidamento stesso in quanto tale, ossia una concessione di fiducia pre-calcolante, prescinde necessariamente dalla possibilità di uso. Così il sapere si riduce ad informazione e dell’originario rapporto rimane una bella sensazione, spesso tradotta nella pratica del didjeridoo in un inseguimento di ritmi forsennati o nella padronanza della tecnica più sensazionalmente strabiliante!
Ciò che c’è da temere è che il didjeridoo venga svuotato di tutte le sue significazioni essenziali, ad iniziare dalla possibilità di rapportarsi a se stessi ancora prima delle significazioni mitologiche e culturali, che la sua "magia”, ossia la sua intrinseca capacità di fare contatto, venga ridotta ad un calcolo, ad una formula matematica, ad un diagramma. C'è da temere che la pratica del didjeridoo divenga tecnica, performativa, che un insegnamento venga ridotto a metodo e che l’intimo rapporto di ricerca, di conoscenza di se stessi venga sostituito dalla competitività che talvolta si manifesta in un ossessivo stordimento ipoventilatorio o d'altra parte che la ricerca si risolva in "viaggi sciamanici" fai-da-te o addirittura proposti come approccio.
Allora qual’ è il significato che mi lega ad una tradizione, quella aborigena, che NON posso condividere? Chiunque si avvicini alla musica lo fa perché si emoziona. Tale emozione parla sempre e solo di me stesso, la tecnica è l'esito di un rapporto sincero e autentico con il significato di tale emozione, ciò che in ultimo, di una qualsiasi esperienza, può essere ridotto a calcolo è il suo funzionamento e non il suo significato. E quale significato se non il mistero che da sempre cantano gli aborigeni? Il Primo canto del Primo Uomo, come scrisse Bruce Chatwin nelle Vie dei Canti, non è forse lo stupefatto : “Io sono!” ?
Come recita un antico detto giapponese: Quando il cuore è giusto il pennello va giusto!
Suonare (il Didjeridoo): un'esperienza significativa
Ho appena iniziato a comprendere le implicazioni del fatto che da sedici anni suono il didjeridoo perché tramite esso possa originariamente ed essenzialmente incontrarmi e ritrovare l’altro in tale incontro ed al contempo quotidianamente mi scontro con ciò che in me, in questi tempi ed in questa cultura, vorrebbe dominare, controllare, normalizzare, competere, fare mio ed esaurire tale incontro. Nulla a che fare quindi con l'apertura del 3° occhio e la sublimazione delle energie verso il 7° chakra, esperienze che non contesto a priori ma che delegherei nello studio a chi seriamente se ne occupa. Per quanto concerne la tecnica, la reputo esito di un rapporto sincero e autentico col significato di tale incontro e mai l'aspetto dal quale partire per un insegnamento.
L'immediato aerofano ad ancia labiale, il primo strumento, di fatto, sono le mie labbra, guance, denti, gola, diaframma ecc... intriso dall'emozione di suonarmi, di sentirmi, di incontrarmi. Ed è forse quest'ultimo l'aspetto significativo che più mi accomuna all'aborigeno che non ho mai conosciuto ma che so intimamente sentire ciò che io sento: la necessità di esprimere il radicale, misterioso e continuo contatto di me con me stesso, strumento e strumentista al contempo, il quale (contatto) solo si evidenzia, solo risuona e riverbera come da eco antichissima un metro e mezzo circa più in là dell'immediato qui.