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Un estratto dal libro di imminente pubblicazione Magnum Opus Sutra, che tratta il tema della fenomenologia energetica secondo le indicazione dello yoga e del buddhismo
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La fenomenologia energetica cosmica si riversa nella fisiologia grossolana dell’esperienza corporea incarnata: il nostro sentire attraversato dai suoi flussi interni di aria e di sangue, in una circolazione che si arresta solo con la morte fisica. Il movimento ascendente dell’aria nell'inspirazione (puraka in sanscrito) condensa l’azione, la progettazione, la storia, il senso, tutto ciò che è diurno, solare, attivo, caldo, maschile e, riassumendo, la vita. Il movimento discendente dell’espirazione (rechaka in sanscrito) condensa la ricettività, l’attesa, l’intuizione, tutto ciò che è notturno, lunare, freddo, femminile e riassumendo, la morte. La ritenzione che spontaneamente si realizza al culmine dell’inspiro o al culmine dell’espiro (kumbhaka in sanscrito) completa ed equilibra le quattro fasi del respiro, i due movimenti e le due pause.
Lo stesso tipo di circolazione si presenta nel movimento del sangue arterioso, brillante, ossigenato, fluido e vitale che dal cuore viene pompato nelle arterie durante la fase di contrazione (maschile), mentre ritorna al cuore tramite le vene nella fase di rilascio (femminile), come scuro, pesante, denso e con un basso contenuto di ossigeno.
La traslazione del significato cosmico dell’energia cosciente in quella della fenomenologia corporea come un micro riflesso dell’Universo stesso è un'esperienza che è stata osservata per millenni in molte culture di tradizione. Non solo, alcune più di altre sono passate dall’osservazione alla sistematizzazione di tale esperienza in una pratica. Se non è solo un caso che le forze archetipe dell’universo si riversano nel corrispettivo umano, allora la persona è soggetta alle stesse leggi dell’Universo che ne regolano l’equilibrio. Il domandare filosofico per esempio è, secondo Platone ed Aristotele, generato esso stesso dal thauma, lo stupore energetico che è voce dell’accorgersi non scontato dell’esistenza propria e di tutte le cose.
Quando si parla di filosofia esperienziale delle origini greche non devi immaginare noiosi sermoni accademici e vuoti giri di parole, piuttosto pensa a Socrate che affronta la sua morte senza battere ciglio, forte solo della certezza del rigore filosofico e della verità che essa gli ha fornito e che lo accompagna fino all’esito estremo. I filosofi greci erano intensamente e radicalmente compromessi col domandare filosofico. Le stesse implicazioni del domandare, ma secondo una tradizione ed una Via differente, è presente in quella del koan zen, dove il discepolo viene iniziato dal proprio maestro a risolvere un enigma apparentemente privo di risposta logica.
Se hai mai affrontato un koan, come è accaduto a me, saprai che il grado di coinvolgimento è tale che esso non lascia spazio al cibo, al sonno e a qualsiasi altra attività della vita che non sia l’esclusiva indagine esistenziale: il koan brucia il corpo, la mente ed il cuore del praticante in una ustione lavica, fino all’esplosione energetico/intuitiva finale del satori1. Ciò che resta dopo tale tabula rasa è solo la verità della risoluzione dell’enigma stesso dell'essere.
“Il sistema dello Yoga elaborato nel contesto dell’India vedica è senza dubbio una delle porte di accesso privilegiate al dischiudersi dell’energia. Questa è da intendersi non come la grandezza fisica che misura la capacità di un corpo di compiere un determinato lavoro, quanto l’esperienza di ciò che esiste, ossia di questo stesso sentire in atto essenzialmente e prima di riversarsi in uno specifico contenuto: il sapere/sentire dell’esistenza del sapere/sentire stesso”.
La pratica del prānāyāma, il quarto livello dell’Ashtanga Yoga2viene descritta da Patañjali, filosofo e yogi indiano del II secolo a.C. come il controllo (yāma) del prānā (energia vitale/respiro). Il prānā, veicolato dal respiro fisiologico, si muove lungo tre canali principali detti in sanscrito nadi, di cui il centrale, coincidente con la colonna vertebrale, è chiamato sushumna. Sushumna concentra il prānā dalla base della colonna vertebrale -osso sacro, perineo, chakra mūlādhāra-, fino alla sommità del capo, il sahasrā.
Le due nadi laterali che scorrono parallele o intersecate a spirale (a seconda delle tradizioni), rispetto a sushumna, sono chiamate ida e pingala. Ida a sinistra, è la nadi ricettiva/femminile e pingala a destra, quella attiva/maschile, le quali si alternano nella prevalenza energetica tra un movimento e l’altro del respiro e possono essere alterate, modificate equilibrate con un consapevole uso del respiro stesso (nadi shodhana è la nota pratica delle narici alternate. Ne trovate vari esempi spulciando su YouTube).
Ciò che si ottiene è il bilanciamento delle due polarità del prānā. Ma secondo Patañjali, il vero obiettivo del prānāyāma è quello di condurre lo yogi all’involucro, kosha in sanscrito, più essenziale e sottile. I kosha secondo la filosofia esperienziale dei Veda, sono le guaine che avvolgono il nucleo atomico, indivisibile, essenziale dell’esperienza umana. Il corpo grossolano, come abbiamo visto è la guaina più esterna detta annamayakosa col quale si lavora in profondità grazie alle āsana, le posizioni dello yoga. Pranamayakosa è invece la guaina dell’energia vitale, accessibile ed approfondibile col prānāyāma. Il prānāyāma conduce a dhyāna, che letteralmente significa visione ma che più comunemente si riferisce alla vera e propria meditazione. Di fatti il termine sanscrito dhyāna (si pronuncia “giana”), in cinese viene tradotto come chan e in giapponese come zen. Secondo le parole di Patañjali, stesso:
“Una volta che ciò sia stato conseguito, si instaura il prānāyāma, che consiste nell’interruzione del movimento dell’inspiro e dell’espiro” (Yoga Sutra 2,49)".
Ciò che deve essere conseguito è la pratica dei tre precedenti livelli yama, nyama ed āsana. Quando la pratica del prānāyāma si affina tramite lo sforzo volontario del pratyāharā, la capacità di rivolgere i sensi all'interno di sé, e si stabilizza grazie a dharānā, la capacità di mantenere la concentrazione di tali sensi all'interno in maniera prolungata, il prānā che scorreva nei canali laterali si concentra in quello centrale in una sospensione spontanea e prolungata del respiro. Dalle parole di Gerard Blitz, secondo nel lignaggio della mia scuola di yoga dopo Sri Tirumalai Krishnamacharya, il Prānāyāma si riassume in ciò:
“Dice Patañjali che quando āsana (e gli altri anga) ha compiuto la sua funzione, prānāyāma è là. Quando si esce da āsana, da uno stato giusto e prolungato, è il momento di sedersi, d’immobilizzarsi. Si entra in contatto esclusivamente con ciò che riflette la nostra pulsazione profonda: la respirazione. Il passaggio da āsana e prānāyāma è naturale. Non è una tecnica. La coscienza esclusiva del flusso d’aria, arresta la dispersione di prānā, la nostra energia di vita. Prima di questo stato, tale energia si disperdeva, andando dal centro alla periferia. Ora prende il senso contrario e va dalla periferia verso il centro dove si stabilirà”.3
Quando il respiro si sospende anche la mente discorsiva, operativa e psicologica con le sue vritti, i suoi contenuti agitati dal flusso ininterrotto di pensieri, si arresta. Lo sguardo senza occhio4 che si realizza in Dhyana, l’Io Testimone, il Purusha, il Sé, si ristabilisce nella sua originaria sede. Più precisamente e secondo la mia personale esperienza, esso si riconosce come sempre stato nella sua originaria sede. Rifulgendo solo di sé stesso, questo sapere senziente si ripiega verso la propria fonte, lì dove sgorga il sapere/sentire dell’esistenza del proprio stesso sapere/sentire. Prima del primo passo, si dice nello zen, la meta è già raggiunta.
Questo luogo, il quale è un tutt’uno con il sapere/sentire, è la primeva scaturigine dell’energia sebbene ancora non sia in grado di dirsi, a tale livello, della propria verità. Qui, in questa mistica fonte, che è proprio ora e sempre e solo in atto, in questa esperienza concreta ed assoluta -la si potrebbe negare o dubitare solo sapendo/sentendo a partire da tale sorgente-, si pone il discrimine capitale, salvifico, liberante, tra la visione vedica e quella buddhista.
“Chiudendosi agli oggetti esterni dei sensi, tenendo lo sguardo fisso tra le sopracciglia, sospendendo all'interno delle narici l'aria inspirata ed espirata e controllando così la mente, i sensi e l'intelligenza, lo yogi che mira alla liberazione si svincola dal desiderio, dalla paura e dalla collera. Chi permane in questa condizione è certamente liberato”.
Baghavad Gītā 5.27-28
“Ho udito questa tua dottrina acuta e via via sempre più eletta, ma poiché non viene abbandonato il conoscitore del campo (il sé), la ritengo imperfetta...Penso che il conoscitore del campo, anche quando è liberato dalla materia e dai suoi derivati, sia ancora caratterizzato dalla capacità di generare e di essere germe [di generazione]...E in quanto al fatto che si creda la Liberazione conseguente all’abbandono di atto, ignoranza e desiderio, non sussiste una completa separazione da questi fin quando vi è un io.
Asvaghosa, Le Gesta del Buddha 69. 70. 73.
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1 - Il termine giapponese satori deriva dalla radice satoru, ossia “conoscere, sapere, guardare profondamente”. Il satori è l’evento culmine dell’indagine investigativa esistenziale del buddhismo zen e chan. Esso può essere preceduto da intuizioni minori dette kenshō, ossia “vedere nell’essenza o nella Natura di Buddha”.
2 - Le otto membra dello Ashatanga Yoga: Yama condotta sociale e comunitaria, Nyama condotta morale verso sé stessi, Āsana posture yogiche, Prānāyāma controllo del respiro, Pratyāhāra rivoluzione dei sensi all’interno di sé stessi, Dhāranā ritensione e concentrazione di tutti i sensi, respiro incluso all’interno, Dhyana meditazione vera e propria, Samādhi assorbimento intuitivo.
3 - Tratto da Yoga, la regola del gioco, di Gerard Blitz. Edizioni La Parola, 1986.
4 - Il termine sguardo senza occhio, è stato coniato dal maestro Franco Bertossa e da il titolo all’omonimo libro scritto in collaborazione con Roberto Ferrari, Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra scienza e meditazione. Edizioni AlboVersorio, 2005.